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In questo fine settimana si sta concludendo la COP26, la conferenza sul clima che si è svolta a Glasgow con l’obiettivo di combattere la “pericolosa interferenza umana con il sistema climatico” ed in particolar modo di limitare il surriscaldamento del pianeta entro la soglia di 1,5% gradi centigradi. Perché si fa tanta fatica nel combattere gli effetti dannosi dell’inquinamento e del riscaldamento climatico? Nonostante scienziati ed economisti siano pressoché concordi nel ritenere che il modo stia andando verso un’inevitabile catastrofe ambientale ed economica, perché individui e Stati sono insensibili ai temi ecologisti ed ai loro stessi interessi economici?

Ma quali sono gli effetti dannosi del riscaldamento climatico? Desertificazione, alluvioni, uragani, dissesto idrogeologico, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento degli oceani, acidificazione dei mari, solo per citare i più importanti. Tutto ciò porta con sé danni economici e sociali ingenti legati alla riconversione produttiva agricola forzata, alle migrazioni indotte, all’incremento dei costi per gli approvvigionamenti idrici, alla riparazione dei danni e all’attività di ricostruzione legati alle catastrofi ambientali. Purtroppo, sebbene la maggior parte delle persone sia consapevole che nel lungo periodo il danno economico derivante dall’inquinamento sia di gran lunga maggiore dei vantaggi di breve termine, le emissioni inquinanti continuano a crescere e le prospettive per l’economia mondiale sono sempre più disastrose se si allunga la prospettiva ai prossimi decenni.

Perché è così difficile combattere il cambiamento climatico? Per capirlo occorre riflettere sul fatto che attualmente la quasi totalità delle economie avanzate si basa su quella che viene definita economia di mercato, ovvero un sistema economico nel quale la maggior parte delle decisioni non vengono prese dallo Stato a livello centrale, ma si lascia ai singoli operatori di mercato (imprese e consumatori) la libera possibilità di scegliere cosa e quanto consumare e a che prezzo scambiarsi beni e servizi. In tale forma di sistema economico, ogni soggetto persegue egoisticamente il proprio massimo benessere: le imprese si propongono di guadagnare il più possibile ed i consumatori di comprare grandi quantità di beni che desiderano al prezzo più basso. Nonostante questi obiettivi contrapposti, i magici poteri della concorrenza ed il sistema dei prezzi riescono ad equilibrare la domanda e l’offerta garantendo che, senza alcun coordinamento, venga prodotta proprio la quantità giusta ad un prezzo adeguato: alla fine del ‘700 il famoso economista Adam Smith definì “mano invisibile” la forza oscura che guida gli operatori economici al migliore risultato possibile.

La mano invisibile, unita al progresso tecnologico degli ultimi duecento anni, ha consentito di moltiplicare il benessere in tutte le economie avanzate che, sebbene siano tali, stanno inevitabilmente dirigendosi verso il baratro se continueranno sulla strada percorsa negli ultimi decenni. Perché le forze di mercato non stanno funzionando? Perché a volte assistiamo a casi che gli economisti definiscono di fallimento del mercato. Uno di questi è proprio quello dell’inquinamento nel quale l’attività degli operatori economici produce quella che si chiama esternalità negativa, ovvero un danno ad altri soggetti o all’intera collettività senza che ricada su chi lo ha prodotto alcuna penalizzazione in termini economici. Ad esempio, chi inquina producendo con fonti energetiche inquinanti ed a costi bassi finisce per far ricadere sulla collettività le conseguenze del proprio comportamento senza subire alcun danno, anzi ricevendo un incentivo dovuto ai costi di produzione più contenuti; in modo equivalente, chi fa la raccolta differenziata non riceve alcun incentivo economico a farlo, ma ha solo l’aggravante dell’impegno di dividere i propri rifiuti. Il mercato non funziona, anzi finisce per incentivare questi comportamenti, perché chi produce o consuma a costi più bassi finisce per averne un vantaggio!

Quali le soluzioni? Solo un intervento pubblico “illuminato” da parte degli stati può garantire un miglioramento del risultato, imponendo limitazioni legali all’inquinamento o all’utilizzo delle fonti energetiche meno pulite. Purtroppo, in sistemi economici aperti, dove la concorrenza internazionale è sempre più forte, se uno Stato rende più costoso produrre (ad esempio imponendo di utilizzare le più costose fonti energetiche alternative) questo penalizza i prodotti nazionali ed indirettamente i propri cittadini ed il loro livello di benessere, riducendo il consenso politico. Essere green ha un costo immediato inevitabile con un beneficio atteso certo solo nel lungo periodo, probabilmente solo sulla generazione successiva. L’egoismo degli esseri umani, che tanti benefici porta al sistema economico, unito alla miopia che affligge molti di loro, finisce per favorire il disastro economico di lunghissimo periodo, di cui pagheranno il costo i figli e ancora di più i nipoti.

La situazione è purtroppo aggravata dal fatto che sono proprio i paesi in via di sviluppo, che meno possono sacrificare in termini di benessere economico, i maggiori contributori all’inquinamento globale. Ad esempio, come è evidenziato del grafico sotto, la Cina e l’India da sole producono quasi due terzi dell’energia elettrica mondiale da carbone, la più inquinante delle fonti energetiche.

È dunque evidente che solo un accordo multilaterale vincolante per tutti ha la possibilità di raggiungere un qualche efficace obiettivo. Tutti devono impegnarsi contemporaneamente a combattere il cambiamento climatico producendo con fonti più costose, per evitare che qualche Paese si avvantaggi a scapito di altri. Inoltre, è indispensabile che i Paesi più ricchi forniscano compensazioni economiche a quelli più poveri, che altrimenti difficilmente saranno disposti a ridurre ulteriormente il proprio livello di benessere già basso a fronte di un futuro più verde. Infatti, è assai difficile convincere chi ha solo una ciotola di riso da mangiare e pensa alla sopravvivenza quotidiana che questa dovrà ulteriormente ridursi per salvare il nostro pianeta fra 30 anni.

La sensibilità collettiva crescente su questi temi è certamente positiva, ma potrebbe non essere sufficiente ad incentivare i politici ad agire rapidamente sulla base della spinta “elettorale”. Non resta che sperare che parallelamente i leader politici abbiano la lungimiranza necessaria per guidare gli elettori conducendo i loro Stati verso politiche socialmente responsabili ed economicamente sostenibili, che dimostrino di essere veri statisti perché, come diceva Winston Churchill, “Il politico pensa alla prossima elezione lo statista alla prossima generazione”.